FOIBE
FOIBE. CINQUANT'ANNI DI SILENZIO
Il genocidio ignorato dalla storiografia "ufficiale" Teodoro
Francesconi
Il conflitto nella ex-Jugoslavia fra serbi e croati,
la guerra che ha per teatro la Bosnia, la durezza di una lotta che coinvolge
donne, vecchi e bambini ha portato all'attenzione dei popoli europei e
dei nostri connazionali certe caratteristiche degli slavi del sud.
Si è parlato di "pulizia etnica"
e delle modalità con le quali i contendenti in causa intendono applicare
questa politica al fine di risolvere radicalmente ogni problema di convivenza:
attraverso il terrore, annientando l'avversario, annichilendo ogni sua
volontà di contendere il predominio del paese costringendolo alla
fuga.
Non sappiamo se, ed in che misura gli Italiani,
alla mercé delle manipolazioni dei mass-media sempre strumentalizzati,
abbiano avuto la possibilità di recepire il messaggio.
Gli slavi del Sud sono popolazioni che, a seguito
di esperienze storiche traumatizzanti quali secoli di dominio ottomano,
tre anni di guerriglia partigiana, decenni di regime marxista, sono portati
a vivere ogni contesa di carattere religioso, politico, etnico, in maniera
violenta e radicale, dove la brutalità e la crudeltà non
conoscono confini. d'altra parte, questa, una realtà che avrebbe
dovuto essere ben recepita dal nostro popolo perchè, nel corso dell'ultimo
conflitto, almeno 400.000 soldati italiani si sono alternati come truppa
di presidio in Jugoslavia ed hanno visto con i propri occhi cosa significasse
la lotta tribale che tormentava quel paese: serbi contro croati, cattolici
contro greco-ortodossi e mussulmani, partigiani comunisti contro cetnici
realisti, ustascia e guardie bianche contro tutti, in un'orgia di stragi,
torture, vendette, efferatezza.
Ma in tutto questo, e torniamo a riferirci ai mass-media,
non si poteva e doveva parlare per due ottimi motivi.
Innanzitutto in Jugoslavia aveva trionfato il comunismo
e sottolineare gli aspetti deteriori di un paese che aveva abbracciato
questa fede voleva dire schierarsi e comportava un'alzata di scudi da parte
delle sinistre. Era opportuno tacere per non essere accusati di fascismo
ed incorrere nella riprovazione generale. Poi c'era un secondo eccellente
motivo, e cioè che la fine del secondo conflitto mondiale aveva
visto la Jugoslavia (Slovenia e Croazia si dovrebbe dire oggi) impadronirsi
di tre province nelle quali la popolazione di lingua italiana era da sempre
stata maggioritaria: quelle di Pola, Fiume, Zara. Questa occupazione, oltre
a mutilare ingiustamente la Nazione, aveva comportato l'esodo di 350.000
nostri fratelli, e criticare la Jugoslavia significava fare del "revanschismo",
disobbedire agli ordini e nuocere agli interessi degli Stati Uniti.
Sulla "pulizia etnica" come concepita
dai nostri confinanti ad oriente, silenzio assoluto, come silenzio assoluto
si doveva osservare sulla maniera spietata con la quale era stata praticata
ai nostri danni.
Il termine "foibe" è stato così
per cinquanta anni oggetto di una accurata rimozione, almeno negli ambienti
ufficiali.
Sappiamo bene che questa rimozione non riguarda
i nostri lettori, ma ci sia consentito di cogliere l'occasione per fare
qualche precisazione.
Il termine "foiba", pozzo naturale che
si riscontra con grande frequenza nel terreno carsico della provincia di
Pola, è stato convenzionalmente usato a proposito di tutte le eliminazioni
di carattere politico ed etnico effettuate nelle province orientali. In
effetti le "foibe" riguardano solo una piccola parte delle 15.000
- 20.000 persone di cittadinanza e lingua italiana che sono state assassinate
in quella zona dal 1943 al 1950. I dalmati, i fiumani, gran parte dei goriziani
uccisi sono stati fatti sparire in mille ingegnosi modi che nulla hanno
a che vedere con gli orridi carsici. Ciò non toglie che il termine
"foibe" abbia assunto un significato particolare nella "pulizia
etnica" effettuata a nostro danno ed abbia avuto un grandissimo rilievo
nel terrorizzare, soggiogare, costringere alla fuga i nostri connazionali.
Si cominciò a parlare di "foibe"
in Istria ed a Trieste nell'ottobre del 1943, quando l'offensiva tedesca
permise di riprendere il controllo del territorio, restato per tre settimane
alla mercé degli slavo-comunisti. Erano spariti da 1000 a 1500 nostri
fratelli che erano stati prelevati dalle loro abitazioni e deportati.
Spariti nel nulla? No! Ben presto si potè
accertare che erano stati uccisi gettandoli nelle "foibe". Si
procedette al recupero di quelli per i quali l'operazione era più
facilmente effettuabile è tutti videro le salme già intaccate
dal processo di putrefazione: uno spettacolo orrendo. Ma dalle indagini
ed ancor più dalle autopsie si seppe come molti fossero morti dopo
una crudele agonia, in quanto non erano state sufficienti nè le
pallottole nè la caduta ad assicurare una rapida fine. Anzi si disse
che, ad arte, spesso i morituri erano stati spinti a coppia nel baratro,
dopo che una sola delle vittime aveva ricevuto il colpo d'arma da fuoco.
Fu evidente che chi aveva organizzato la strage, l'aveva premeditata in
maniera di colpire la fantasia della gente e renderla folle di terrore.
Ovviamente fra gli scomparsi molti erano fascisti, ma molti erano solamente
istriani di lingua, costumi, tradizioni, sentimenti italiani e la loro
uccisione era la componente principale di un piano satanico.
Una "pulizia etnica" studiata a tavolino
e portata a compimento con la massima determinazione, ed un attento lettore
dei fatti della Bosnia e dintorni, non può fare a meno di rilevare
l'attualità di questa tecnica, nella quale sarebbe fuorviante far
distinzione fra croati, serbi, bosniaci.
All'appello mancano solo gli sloveni, ma anche di
costoro, cinquanta anni fa, avemmo le prove della inclinazione a certe
soluzioni radicali.
I nostri marxisti e gli epigoni degli stessi hanno
sempre cercato di imporre il silenzio su questa dolorosissima pagina della
nostra storia. Come hanno fatto? In molti casi negandola e, quando questa
rimozione totale non era configurabile, si sono trincerati dietro la motivazione
ufficiale accampata dagli sloveni e dai croati. Si è trattato, hanno
sostenuto, di fatti sporadici frutto di una esasperazione popolare scatenatasi
come reazione a venti anni di brutalità e violenze fasciste.
Con questa nota documentata intendiamo confutare
questa tesi di comodo. I comunisti italiani giunsero alla "resistenza"
ed agli anni quaranta attraverso un lungo tirocinio, forgiati da esperienze
derivanti da trenta anni di lotte e tentativi rivoluzionari.
Dalla rivoluzione di ottobre del 1917, alla guerra
di Spagna del 1936, si era sviluppata la teoria, collaudata poi con la
pratica, che il potere popolare si poteva affermare ed imporre solo mediante
l'eliminazione delle classi parassitarie. "E il sangue che fa girare
le ruote della storia": ed era necessario annientare il nemico perchè
il nuovo mondo si affermasse.
Di questo orientamento avemmo le conseguenze anche
in Italia. Durante i lunghi mesi della guerriglia partigiana, ovunque fu
possibile, le formazioni comuniste procedettero alla eliminazione fisica
dei nemici politici e di classe, al dì là di ogni cautela
e finzione tattica. Quando si pervenne alla crudele primavera del 1945,
accanto alle vendette private ed alle liquidazioni strascico di una guerra
civile, numerosissime furono le uccisioni mirate ed aventi un carattere
classista. Questo aspetto è universalmente accettato, con particolare
riferimento a certe zone come la rossa Emilia, dove si protrassero clamorosamente
anche nel 1946. I comunisti istriani, triestini, goriziani inquadrati nel
P.C.I., non potevano logicamente avere una valutazione diversa dai compagni
di Bologna, Modena, Vercelli, Novara ecc, ecc.
Irrilevante era per loro il fatto che in Istria
i nemici di classe fossero italiani, considerando un pregiudizio senza
peso qualsiasi problema di nazionalità.
Se i compagni croati e sloveni prendevano l'iniziativa
della liquidazione dei borghesi, degli intellettuali, dei possidenti, si
trattava di una iniziativa proletaria da appoggiare, perchè nella
futura società, distinzioni di nazionalità non avrebbero
avuto senso.
Trovare le prove di questa complicità non
è facile anche se l'atteggiamento di costoro è già
sufficientemente eloquente. Quando nell'autunno del 1946 fu chiaro che
Gorizia e Monfalcone erano perdute per la loro causa, vi furono almeno
3000 comunisti italiani che passarono il confine: un esodo contro corrente
rispetto a quello dei nostri 350.000 esuli.
Meglio la Jugoslavia marxista di Tito che l'Italia
di De Gasperi, anche se gran parte dei 3000 rimpatriò furtivamente
nel 1948 quando Tito venne cacciato dal mondo comunista.
Abbiamo però trovato una prova eloquente
della approvazione dei comunisti italiani di Trieste all'operazione "foibe".
Nel 1979 l'Istituto nazionale per la storia del
movimento di liberazione in Italia "Istituto Gramsci" pubblicò
i tre volumi "Le brigate Garibaldi nella Resistenza-Documenti"
a cura di Claudio Pavone.
In circa 2000 pagine è documentata la vita
delle formazioni partigiane comuniste attraverso testi ufficiali, lettere,
relazioni, messaggi colleganti comandi divisionali, brigate, distaccamenti
garibaldini. Un lavoro di grande impegno che dimostra l'ampiezza della
partecipazione comunista alla Resistenza in Italia dal luglio 1943 alla
fine maggio 1945. Non c'è dubbio che i documenti siano stati accuratamente
selezionati affinché non finisse di pubblico dominio quanto si riteneva
opportuno rimanesse riservato. Ma su 2000 pagine è sempre possibile
incorrere in un errore! Ed ecco la perla sulle "foibe".
Prendiamo il 1° volume e leggiamo da pagina
179 a pagina 182, documento 41 datato (... ) dicembre 1943 ed intestato
"Il comitato federale di Trieste del P.C.I. al comandante del battaglione
"Trieste".
Comincia con le parole: "Rispondiamo al rapporto
del 21 dicembre 1943", e per tre pagine commenta le notizie ricevute,
dà consigli, ordini, suggerisce, commenta. Ad un certo punto bisogna
giudicare su una perplessità sorta fra i compagni del battaglione
"Trieste" a proposito dei carabinieri di Villa Decani. Quei militi
avevano dimostrato volontà di collaborazione. Era stato corretto
accettarla? Ecco la risposta.
"Nel caso dei carabinieri di Villa Decani ben
fatto, (omissis) non rinunciando con ciò alla tattica delle foibe"
quando si scovano fuori fascisti responsabili di azioni contro la popolazione,
ex dirigenti e responsabili del regime fascista dimostratisi particolarmente
reazionari; dirigenti responsabili dell'attuale fascismo repubblicano,
del governo del venduto Mussolini, membri della milizia e della Guardia
Nazionale Repubblicana; collaboratori aperti, decisi ed attivi dei tedeschi,
spie, ecc. ecc. La "tecnica delle foibe" e non "fatti sporadici
frutto dell'esasperazione popolare......" come volevasi dimostrare.
STORIA DEL XX SECOLO N. 4. Agosto 1995. (Indirizzo e telefono:
vedi PERIODICI)
LA MIA VITA
PER UN'ACCA
Intervista a cura di Maria Paola Gianni
"Non sono croato, ma
italiano, e ne sono fiero! Nonostante quello che ho patito c'è
qualcuno che sta falsamente diffondendo l'ipotesi che io sia croato a causa
del cognome, solo per screditare la mia persona e la mia storia. Inizialmente
il cognome di mio padre era “Udovicich”. Nel ‘22 è stato cambiato
in Udovisi, perché con l'avvento prima dell'Italia, poi del fascismo
molti hanno deciso, in base ai loro sentimenti, di italianizzare i loro
cognomi. Ma la prova che sono istriano è nell'-h finale, tipica
dei nomi della piccola penisola".
Inizialmente, da un primo
contatto con il tenente dell'esercito italiano Graziano Udovisi, oggi settantunenne,
è emersa una certa sua reticenza nel rilasciare l’intervista, indisponibilità
svanita non appena letto l’ultimo numero di Nuovo Fronte.
"Mi è piaciuta
molto l'intervista a Pititto, è un giudice molto in gamba e mi auguro
che riesca a portare a termine il suo lavoro estremamente difficile
Uno dei principali motivi
della iniziale reticenza di Udovisi è la sofferenza che prova ogni
volta che racconta e rivive la sua drammatica esperienza.
Udovisi è determinato
più che mai a ribadire il suo amore per la Patria, il suo senso
del dovere e il ricordo di oltre ventimila fratelli italiani che non ce
l'hanno fatta. Il vergognoso il fatto che non percepisca alcuna pensione
di guerra, ma solo una pensione da insegnante, in base al lavoro svolto.
Lo stato italiano non lo riconosce
come combattente. L'unica soluzione è che "Scalfaro prenda
a cuore questo fatto e finalmente ci riconosca non soltanto come combattenti,
ma ci ridia almeno tutti i nostri gradi, la nostra dignità, il nostro
titolo personale, quindi anche la pensione, come è stata data ai
nostri infoibatori - ha invocato il nostro compatriota. Ma questo significa
sconfessare completamente il comunismo dei primi tempi, vuoi dire sconfessare
Togliatti, vuoi dire sconfessare addirittura lo Stato italiano che finora
ci ha trattato così miseramente". Dopo tutto quello che ha
subìto, alla domanda di che cosa provasse nel sapere che il Tribunale
penale di Roma non ha ancora potuto disporre l'arresto dei due massacratori
jugoslavi Ivan Motika e Oskar Piskulic, rispettivamente di 89 e di 76 anni,
a causa della loro avanzata età, ha risposto: "Noooo... è
inutile, dopo tanto tempo (sospirando lungamente in segno di sconforto).
Sono miserie umane, soltanto miserie umane. Io non conosco i nomi di coloro
che mi hanno torturato e infoibato, erano più grandi di me, ora
saranno morti. Forse saranno in mano a quei cani neri che hanno buttato
per primi dentro le foibe, perché fossero quei cani neri a trattenere
le anime degli infoibati e gli infoibatori potessero dormire i loro sonni
tranquilli. Siamo stati percossi, torturati, perseguitati e sempre
ci hanno chiamato "fascisti". E’ comodo dare a noi, giuliani,
istriani, fiumani, dalmati, la colpa di una guerra fatta da tutti gli italiani,
iniziata nel 1940. Si parla ancora di fascisti; se anche lo fossimo
stati che colpa avevamo per essere infoibati? Attenzione che i fascisti
sono persone comuni, come lo sono comunisti, democristiani e altri.
E gioire per le sofferenze inflitteci? Eh no! Troppo comodo anche per tutti
i partiti che sono al potere. Non ci sto. L'altra mattina mi
hanno telefonato dall'Australia per programmare un collegamento diretto
tramite una stazione radio di nome "Rete Italia". Laggiù
ci sono tanti italiani che vogliono sentire le vicissitudini dell’Istria
e mi ha profondamente commosso di essere ricordato dai nostri fratelli
istriani emigrati in Australia".
Quello di Udovisi è
un triste diario di ricordi che fa parte di un macabro e vergognoso capitolo
della storia, dimenticato da troppi. Ancora oggi non dorme sonni
tranquilli, i suoi pensieri tornano indietro, a quel terribile sabato 5
maggio 1945, quando si presentò alle ore 17,30 direttamente presso
il comando slavo. Il suo senso di responsabilità lo fece intervenire
per cercare di salvare i suoi sottufficiali. Niente da fare. I massacratori
slavi non lo fecero neanche parlare ma, dopo avergli chiesto solo nome,
cognome e grado, lo legarono con le mani dietro alla schiena col fil di
ferro e lo stiparono in una cella tre metri per quattro, assieme ad altri
trenta italiani, stretti come sardine, quasi senza aria e tutti con le
mani legate col fil di ferro dietro la schiena. Morivano di sete
e dopo imploranti richieste hanno offerto loro un fiasco con urina. Seminudi,
avevano solo un paio di pantaloni addosso. "Bisogna ricordare
che io non parlo per me stesso, ma almeno ventimila nostri italiani sono
stati massacrati in questo modo, almeno ventimila!". Allora Udovisi
era tenente della Milizia Difesa Territoriale, reggimento comandato da
Libero Sauro, figlio di Nazario Sauro, l'eroe istriano. "Mi
sono presentato insieme a un amico, che era mio ospite, proveniente dalla
zona di Mantova e considerato un regnicolo, ossia un suddito del Regno
d'Italia. Da sottolineare che serbi e croati, non appena occupata la zona
istriana, hanno considerato slavi tutti coloro che vi risiedevano, ormai
per loro non più cittadini italiani".
Ma, anche se considerati slavi,
secondo il loro modo di pensare, eravate da eliminare?
“Non tutti. C'erano
quelli che nel '43 hanno immediatamente impugnato le armi per difendere
la popolazione e il territorio italiano. Poi ci sono stati quelli che stavano
a guardare e quelli che stavano con gli slavi".
Ma era già allora tutto
preordinato?
"Oggi possiamo dare una
risposta affermativa. Era già preordinato un fattore politico,
preparato a tavolino, cercare di creare nelle nostre terre la psicosi di
terrorismo per ottenere remissione e obbedienza dalle masse. I padroni
dovevano essere loro. Dopo l'8 settembre dominarono per circa un
mese l'Istria, periodo durante il quale sono sparite alcune migliaia di
persone. Il luogo si scoprirà solo dopo, a causa di continui
lamenti che provenivano dalle fenditure rocciose di chi ancora non era
morto. Chiedo scusa alla popolazione istriana e alla nazione per non essere
riuscito a salvare il territorio italiano. Eravamo in molti, ma non
ce l'abbiamo fatta".
Ma perché questi infoibati?
"Perché italiani.
Ma all'epoca il perché non si sapeva e ancora al giorno d'oggi c'è
qualcuno che mette in dubbio l'accaduto. All'epoca nemmeno i più
sapienti e colti riuscivano a individuarne i motivi e ripiegarono sull'unica
ipotesi immaginabile: la vendetta. Ma come potevano essere vendette
personali, se le vittime erano uomini, donne e bambini?". Ma perché
siete stati additati come fascisti dai comunisti di allora? "Questo
rimane sempre un grande interrogativo".
Forse era l'unico modo per
poter arrestare questa pulizia etnica?
“Non era una pulizia etnica,
questa dizione è stata inventata nel 1980 da uno psichiatra serbo.
Io lo chiamo terrorismo etnico".
Perché Sandro Pertini,
in qualità di capo dello Stato, andò a Belgrado a riverire
la salma di Tito e non passò mai a visitare le foibe? Dovendo
rappresentare l'unità d'Italia non avrebbe dovuto omaggiare prima
di tutto quei luoghi dove migliaia di con i patrioti innocenti sono stati
trucidati?
"Fino a pochi anni fa
nessun presidente della Repubblica Italiana ha mai onorato della sua presenza
una foiba: solo Cossiga, nel 191 e in seguito Scalfaro, che ha definito
il tutto "una montagna di sofferenze".
La verità è
che ci sono stati molti, per non dire moltissimi, non solo ex capi di Stato,
ma anche leader di partito, che sono stati più vicini ai nostri
persecutori che a noi perseguitati. Ci sono tanti italiani che hanno
infierito su di noi. Il Pm Giuseppe Pititto li ha trovati e ha parlato
di crimini contro l'umanità. Come sono stati perseguitati
gli ebrei e qualcuno doveva pagare qui in Italia, così italiani,
croati, serbi e sloveni, tutti gli jugoslavi, cioè slavi del sud,
hanno detto che eravamo noi a dover pagare, come se noi avessimo dichiarato
loro guerra".
Ma perché il governo
italiano non ha difeso le proprie terre e si è comportato così
irresponsabilmente?
"Basti pensare che abbiamo
un segretario dei partito della sinistra triestina (Pds) che ha affermato
sui giornali che negli anni 43-48 il comunismo diede copertura e legittimazione
alle foibe. Quindi, era tutto preordinato, tutto predisposto. Il
nostro sforzo di combattere gli slavi fu totalmente vano".
Lei aveva solo 19 anni quando
è stato sul punto di morire. Se la sente di raccontare la
sua storia?
"Io non sono stato catturato,
ma mi sono presentato direttamente al comando slavo e non per consegnare
le armi, perché ero già in borghese. Rientrato con
il mio reparto a Pola di notte, nessuno sapeva del mio ritorno, tranne
alcuni dei miei compagni. Non sarebbero riusciti mai a trovarmi, ma uno
dei miei sottufficiali, parlando con mia madre, disse che gli slavi li
stavano cercando dappertutto e chiese se potevo fare qualcosa. Capii
che avevo il dovere di presentarmi al comando slavo per dire che avevo
mandato la maggioranza dei miei uomini a Trieste. Solo così,
forse, avrebbero smesso di cercarli. Sono intervenuto solo per salvare
qualche mio soldato".
Ha sortito qualche effetto
questo gesto di grande coraggio?
“Assolutamente no. Però,
ringraziando Iddio, mi sono salvato sia io che il mio amico presentatosi
con me. Lui, essendo stato considerato regnicolo, quindi abitante del Regno
d'Italia, era stato mandato in un campo di concentramento e per cercare
di mantenere buoni i contatti con l’Italia lo hanno considerato prigioniero
di guerra, mentre per quel che mi riguarda mi hanno considerato un traditore,
perché ufficiale”. Che sentimento è rimasto in lei dopo quella
tragica storia?
“L'amaro in bocca, anche perché
l'Italia ha fatto ben poco. Certo gli slavi potevano ammazzarci in
altro modo. Per quale motivo le foibe? Avevano forse cercato di cancellare
le loro tracce, nascondendo i corpi martoriati nelle fenditure rocciose".
E poi che è successo?
"Ad un certo punto ci
hanno prelevati in sei e portati in un'altra stanza per torturarci tutta
la notte. Dopo mezz'ora non sentivo più nulla, avrebbero potuto
anche tagliarmi a pezzettini, ma non me ne sarei reso conto. Ormai il corpo
non rispondeva più ai riflessi, era inerme, e quando a un certo
momento mi hanno ordinato di alzarmi in piedi, ho cercato di guardarmi
intorno: il mio volto era talmente tumefatto, livido e gonfio che vedevo
a malapena da due piccole e lunghe fessure degli occhi, dovevo avere la
testa rovinata. Ricordo di aver visto un mio compagno di fronte a me, la
cui schiena era completamente rossa e mi chiesi per quale motivo lo avessero
dipinto di quel colore, invece era tutto il sangue che stava uscendo dalle
innumerevoli ferite. Se lui era ridotto in quel modo, se gli altri erano
così, allora anch'io ero in quelle condizioni, ma non me ne rendevo
conto. E quando ci hanno fatto alzare in piedi per portarci fuori entrarono
due ufficiali, un uomo e una donna, la quale disse che il più alto
doveva stare davanti alla fila. Nessuno si mosse, allora questo ufficiale
mi prese per i capelli, mi strattonò spingendone davanti a lei,
la quale senza dire una parola mi spaccò la mascella sinistra con
il calcio della pistola. Mi misero alla testa della fila perché
ero ufficiale, gli altri erano dietro, ma l'ultimo non ce la faceva a stare
in piedi. Forse perché lo avevano massacrato più degli
altri, forse perché più debole, non so. Sin dal primo momento
di prigionia ci avevano legato le mani dietro la schiena col fil di ferro,
per non slegarcele mai più, neanche durante le torture. Si
può facilmente immaginare come quei maledetti fili taglienti avessero
solcato la carne dei polsi e come continuavano a incidere sulle ferite
al minimo movimento. Poi ci misero in fila e ci portarono fuori seminudi,
senza scarpe: forse il fresco della notte ha fatto in modo che capissi
qualcosa di più, in quanto la testa era completamente imbambolata,
il cervello funzionava relativamente. A quel punto altri soldati,
ben vestiti, ci portarono fuori, nel bosco, non erano quelli che ci avevano
torturato. Dovevano essere dei militari, qualcuno della banda d'accordo
con loro e anche borghesi, partigiani comunisti, erano tutti contro di
noi. Ci hanno disposti in fila l'uno dietro all'altro, sempre con le mani
dietro la schiena e ulteriormente legati insieme tramite un filo di ferro
che scorreva sotto il braccio sinistro di ognuno, per formare una fila
dritta, fino ad arrivare all'ultimo che, non avendo la forza di stare in
piedi, essendo svenuto a terra, era stato legato non al braccio, ma intorno
al collo. Ricordo di aver sentito suggerire da due che parlavano in italiano,
nel nostro dialetto, di legarlo attorno al collo. Sicuramente durante il
tragitto l'ultimo è morto soffocato dal filo che ci legava l'un
l'altro. Abbiamo camminato per un viottolo, non so per quanto tempo, ero
distrutto e il fil di ferro che mi univa ai compagni era una tortura. Appena
riuscii a farlo scorrere leggermente lungo il braccio, fino al polso, mi
sembrò un sollievo; in quel momento sono scivolato e caduto. Immediatamente
mi è arrivata una botta con il calcio di una mitragliatrice al rene
destro. A causa di ciò ho subito tre operazioni al rene, che da
quel momento ha sempre prodotto calcoli".
Quante altre conseguenze ha
avuto?
"Tante. Non solo sono
stato leso in modo tale da essere sordo all'orecchio sinistro e al destro
ci sento per metà. Ma dal tragitto di trasferimento da Pola
fino a Fianona me ne hanno fatte di tutti i colori, mi hanno fatto mangiare
della carta, dei sassi, mi hanno sparato vicino alle orecchie, si divertivano
tanto a vederci sobbalzare. Mi hanno accompagnato verso un posto e ci hanno
detto: "Fermatevi. La liberazione è vicina". Dentro
di me ho mandato un pensiero al Cielo. Ho guardato dentro alla foiba, ma
non vedevo niente, perché era mattina presto. Giù in
fondo si scorgeva solo un piccolo riflesso chiaro. Si sono tirati
indietro e quando ho sentito il loro urlaccio di guerra mi sono buttato
subito dentro come se questa foiba rappresentasse per me un'ancora di salvezza.
Dopo un volo di 15-20 metri, non lo so, sono piombato dentro l'acqua. Venivo
trascinato sempre più giù e mi dimenavo con tutta la poca
forza rimasta in corpo. Ad un certo momento, non so perché, sono
riuscito a liberarmi una mano. Ho immediatamente nuotato verso l'alto e
ho toccato una zolla con dell'erba, era in realtà una testa con
dei capelli. L'ho afferrata e tirata in modo spasmodico verso di me e sono
riuscito a risalire, ringraziando Iddio. Ho salvato un fratello".
Questa persona dov'è
ora?
"E’ andata in Australia,
e purtroppo è morta, però ha lasciato la sua testimonianza.
Ha lasciato l'Italia, non trovava lavoro, non trovava più pace.
Ha sofferto per la lontananza dalla sua terra e per la tortura subita".
NUOVO FRONTE N. 168 . Novembre 1996. (Indirizzo
e telefono: vedi PERIODICI)
MA NON DIMENTICHIAMO
GLI INFOIBATI
Claudio Schwarzenberg
Un “flash” di agenzia del
27 maggio: il governo italiano ha chiesto alle autorità argentine
“di disporre le necessarie misure” per evitare “una possibile fuga” dell'ex
capitano nazista Erich Priebke che dal 9 maggio scorso è agli arresti
domiciliari nella località andina di Bariloche, a circa 1.450 chilometri
a sud-ovest di Buenos Aires.
Bene fa il nostro governo
nel cercare di assicurare alla giustizia questo criminale di guerra nazista,
ma sarebbe ancora meglio se identica solerzia fosse dimostrata anche nella
ricerca di altri criminali (quelli che agivano con la stella rossa sulla
bustina, tanto per intenderci) dei quali si conoscono, da sempre, fatti,
misfatti, nomi e luoghi di residenza.
Pensiamo alle foibe, voragini
disseminate in tutta la Venezia Giulia e nell'Istria. Molte sono ancora
inesplorate. Furono usate dai croati e dagli sloveni, dal 1943 in poi,
quali enormi fosse comuni per eliminare migliaia di persone colpevoli solo
di essere italiane. L'infoibamento era l'ultima fase della tortura: le
salme avevano i polsi legati con filo di ferro stretto con le pinze fino
a spezzare il polso.
Molti cadaveri furono esumati
in coppia, legati con filo di ferro agli avambracci; e solo uno dei due
presentava colpi di arma da fuoco, l'altro precipitava vivo. Con calci
e bastonate erano portati sull'orlo della foiba.
Ma, come ha scritto Luciano
Luciani segretario del Circolo Giuliano Dalmata di Milano, non c'erano
solo le foibe. In Dalmazia c'era il mare. Centinaia di vittime furono gettate
in mare con una pietra al collo. Tra queste la famiglia del farmacista
Pietro Ticina, di Zara: l'intera famiglia composta dai genitori, dalla
suocera e da una bambina subirono questa triste sorte. Con disperata energia
il padre riuscì a trascinare con sé uno dei feroci aguzzini.
Ancora: il 30 settembre 1944
l'industriale Nicolò Luxardo di Zara e sua moglie Bianca Ronzoni,
che s'erano rifugiati sull'Isola Lunga, catturati dai croati, furono gettati
anch'essi in mare con un sasso al collo. Ci furono anche lapidazioni, impiccagioni,
fucilazioni. Giuseppe Cernecca, di Sanvincenti, fu costretto a portare
sul luogo dell'esecuzione un sacco di pietre con le quali venne lapidato.
Altri due suoi fratelli vennero affogati nel mare di Santa Marina.
Cosa hanno fatto i vari governi,
nei cinquant'anni della prima Repubblica, per assicurare alla giustizia
coloro che si macchiarono di questi efferati delitti? Quanti magistrati
hanno compulsato presso l'archivio storico del ministero degli Affari Esteri
le buste di documenti relativi ad “atrocità ed illegalità”
commesse dagli jugoslavi contro gli italiani nel periodo che va dal 1941
al 1945?
Dal 24 al 28 luglio 1990 su
“La voce del Popolo” di Fiume, quotidiano della minoranza etnica italiana
in Jugoslavia, apparvero le tre puntate di un'intervista straordinaria
e coraggiosa di tale Laura Marchig con Oskar Piskulìc-Zuti il cui
nome oggi in Italia, e forse in buona parte della vecchia Jugoslavia, non
dice nulla a nessuno.
Per gli esuli di Fiume -ha
scritto Amleto Ballarini su “Il Secolo” del 28 giugno 1992, per quanti
là, volenti o nolenti, rimasero, per gli stessi slavi del Golfo
del Carnaro, quel nome s'associa, con un doloroso riflesso condizionato
dell'anima, all'idea delle foibe. Come dire nel Biellese, tanto per intenderci,
di Moranino Francesco detto Gemisto. Laura Marchig introduceva la sua intervista
con una premessa che per esser stata pubblicata a Fiume (Rijeka) assume
il valore d'un documento eloquente nella sua sinteticità come il
referto di un'autopsia:
“Oskar Piskulìc, il
famoso Zuti, nato a Fiume nel 1920, eroe della Guerra Popolare di Liberazione,
attivista di spicco del movimento comunista, iscritto al Partito dal 1941,
entrato subito nella resistenza, sia durante la guerra che dopo, svolgerà
sempre funzioni di polizia. Al termine del conflitto diviene uno dei capi
dell'Ozna, la polizia segreta che più tardi prenderà il nome
di Udba. E questo è tutto quello che c'è da sapere su Oskar
Piskulìc... Speravamo, facendogli un'intervista, di avere dei chiarimenti
sia sulla sua attività di quegli anni sia su alcuni fatti della
storia rimasti oscuri.
Avremmo voluto conoscere la
storia di intere famiglie fiumane, viste per l'ultima volta ammassate per
le piazze di Fiume e dopo scomparse per sempre, o quella di tanti ufficiali
e sottufficiali dell'esercito italiano segregati nelle carceri di via Roma
e dopo spariti. Ci premeva di avere chiarificazioni sulle uccisioni degli
autonomisti fiumani avvenute fra il 3 e il 4 maggio del 1945, subito dopo
l'arrivo delle brigate partigiane in città. E, soprattutto, avremmo
voluto sapere il perchè di queste frettolose esecuzioni sommarie,
ma anche assassinii, compiuti casa per casa. Com'è morto, ad esempio,
il Dott. Mario Blasich, autonomista che da anni giaceva paralizzato in
un letto? La moglie raccontò che furono in due. Bussarono alla porta
e chiesero. - Xe in casa el dotor? - Li fece accomodare. Dopo un po' se
ne andarono. Trovò il marito strangolato nel suo letto.
Come morirono altri cittadini
fiumani che avevano sperato nella creazione di una Città Stato non
soggetta al potere di alcun Paese? Cosa si nasconde dietro l'uccisione
di Giuseppe Sincich, giustiziato a colpi di pistola? Dietro a quella del
dott. Nevio Skull, padrone della fonderia Skull, la cui storia rimane in
verità ancora più misteriosa? E il senatore Bacci e il senatore
Riccardo Gigante? Cosa ne è stato di tutti gli altri i cui nomi
appaiono come chiazze nere sul vermiglio di una bandiera? "Tante cose
avremmo voluto sapere, ma confessiamolo, non ne abbiamo cavato un ragno
dal buco.
Lo stesso Oskar Piskulìc ci ha confidato
di essere legato da un giuramento che è comune a tutti i membri
della polizia segreta: quello di non rivelare mai, in vita, nemmeno per
iscritto, nemmeno tramite memorie depositate, quello che sa".
Oltre ai senatori del Regno
Icilio Bacci (arrestato il 21 maggio 1945) e Riccardo Gigante (arrestato
il 4 maggio 1945), alla memoria dei quali il Senato della Repubblica non
ha dedicato alcun ricordo, furono arrestati e uccisi a Fiume, a guerra
finita, per volontà del Piskulìc (che continua a vivere tranquillamente
a Fiume) Carlo Colussi (già podestà di Fiume) e sua moglie
Nerina Copetti in Colussi; Rodolfo Moncilli; Mario Blasich; Angelo Adam,
sua moglie Ernesta Stefancich e sua figlia Zulema Adam; Nicolò Cattaro
panettiere di Abbazia; Lucia Vendramin; Giuseppe Sincich; Nevio Skull;
il prof. Gino Sirola (ultimo podestà di Fiume dopo l'8 settembre
1943 e riconfermato il 9 febbraio 1944), che, arrestato dai “titini” a
Trieste il 3 maggio 1945, fu riportato a Fiume nella villa Rippa trasformata
in carcere e luogo di torture) e poi scomparve; Margherita Sennis e sua
figlia Gigliola; Angela Neugebaucr, crocerossina più volte decorata
e tanti, tanti altri.
Insieme a Oskar Piskulìc
(detto Zuti) e a sua moglie (una certa Marghitic) operarono a Fiume contro
gli italiani: Jovo Mlademe, Vicko Lorkovic Minack, Milan Cohar, Norino
Nalato e Giuseppe (detto Bruno) Domancich.
I fatti delittuosi commessi
da costoro non possono essere definiti “crimini di guerra” (perché
la guerra era ormai finita) ma veri e propri “crimini contro l'umanità”,
imprescrittibili nel tempo. La nostra solerte Amministrazione cosa ha fatto
per assicurare alla giustizia questi criminali? Sono state avviate domande
di estradizione? Si è iniziato un procedimento penale a loro carico?
Oppure non si è fatto nulla (omettendo atti d'ufficio), perché
ci sono ancora i morti buoni e quelli cattivi, quelli, per capirci, che
essendo stati uccisi (e i loro corpi gettati chissà dove) per il
solo fatto di essere italiani non destano interesse alla giustizia degli
uomini, perché rappresentano i vinti? E i vinti hanno sempre torto.
IL SECOLO D'ITALIA Quotidiano del
4 Giugno 1994.
IL MARTIRIO DI NORMA COSSETTO La tragedia
istriana nella seconda guerra mondiale
Mario Varesi
Violentata da 17 partigiani, venne gettata agonizzante
nella foiba di Villa Surani con le mani legate da filo di ferro.
Nell'area espositiva dell'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia
alla Militalia di Novegro (Milano), è avvenuta l'allocuzione dell'Ardito
Prof. Mario Varesi, per celebrare il martirio di Norma Cossetto, fra pareti
rivestite da pannelli, atti a spiegare iconicamente la tragedia adriatica:
pannelli provenienti dall'archivio dell'Ardito Pierpaolo Silvestri di ascendenze
portolane e da lui ordinati nella mostra. Era presente la sorella di Norma,
Licia Cossetto Tarantola. Il Vice Presidente della sezione milanese dell'A.N.V.G.D.,
Vittorio d'Ambrosi ha introdotto il rito, ringraziando pubblico e stampa.
Diamo una sintesi dell'orazione del Varesi che
ha attinto da Licia notizie precise.
"Nell'abbandono e nel nulla, lasciato da Badoglio,
si fanno vivi gli slavi." Sostiene Buscaroli "Le foibe sono la
diretta conseguenza dell'armistizio. Rappresentano un'incarnazione simbolica
della realtà italiana, piombata nel nulla, senza sovranità
e stato, senza onore. Esprimono la crudeltà, diretta al fine preciso:
uccidere per indurre altri alla fuga e impedire così il riproporsi
della questione in termini numerici, cioè con plebisciti o autodeterminazione".
È in tale quadro di sovversione generale che si compie il martirio
di Norma Cossetto. Accenniamo ora alla sua famiglia.
Il padre Giuseppe (S. Domenica di Visinada 1888),
sposato a Margherita Micattovi (Ghedda 1894), aderisce al fascismo per
il suo programma d'italianità. È segretario politico e podestà
di Visinada, commissario governativo delle casse rurali dell'Istria. È
allietato dalla nascita di Norma (1920) e di Licia (1923). Percorre i gradi
della M.V.S.N. fino a Console.
Sui documenti appare la dizione: possidente. Alle
sue terre si sono aggiunte quelle della moglie, tutte lavorate a mezzadria
da contadini, trattati da familiari più che da dipendenti. Assiepavano
infatti la casa padronale per necessità, consigli, aiuti, feste,
mentre i loro figli crescevano nel calore di quella casa, fratelli ideali
di Norma e Licia. Scaturiva da qui il prestigio di Giuseppe Cossetto per
avere anche sostenuto la banda musicale e i circoli locali di cultura,
soprattutto per essere sempre pronto a soccorrere chiunque avesse bisogno,
trasportandolo con la propria macchina (l'unica del paese) all'ospedale
della città più vicina, non importa fosse giorno o notte.
Decade puranco l'ipotesi politica di eventuali dissidi: tutti erano italiani,
fascisti al 100%, preti compresi.
Su cosa poggerà allora la focalizzazione
dell'odio?
Proprietà, automobile, collegio delle figlie,
italianità: nodi attizzati dalla propaganda comunista che prometteva
la terra altrui ai contadini. Unico pedaggio: permutarsi a slavi e protagonizzarsi
in fanatismo per Tito, nel macabro gioco di una mattanza in essere e in
divenire, più squallidamente marchiata dagli stupri, elevati a procedimento
di guerra.
Parliamo ora di Norma e Licia, allieve del collegio
"Notre Dame" di Gorizia, tenuto da suore tedesche.
Norma, superata la maturità con 9 e 10 in
greco e latino, si iscrive a lettere nell'università di padova.
Parla tedesco e francese. Suona pianoforte, canta, dipinge. È preparata
così da insegnare, pur da universitaria, nel liceo di Pisino, nella
magistrale di Parenzo, pre breve tempo a Spalato. Nota caratteristica il
carattere generoso, socievole, versatile. Nello sport predilige nuoto,
giavellotto, tiro a segno, partecipando con la sorella a Como ai Ludi Juveniles.
Nelle organizzazioni del ventennio è piccola italiana e giovane
fascista. Norma ricerca, presso comuni e canoniche istriane, documentazioni
utili alla sua tesi "L'Istria Rossa" (ma di bauxite).
La tragedia esplode il 26 settembre 1943, quando
i partigiani invadono casa Cossetto: c'è solo Norma, che arrestano
rinchiudendola nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano. La invitano
a collaborare, ma vanamente. Dapprima è liberata, perché
tra i guardiani improvvisati c'é qualcuno che conosce. Non si poteva
però fuggire: fin sotto casa stazionavano guerriglieri e le strade
erano covi di traditori e spie. È più tardi arrestata nuovamente,
condotta a Parenzo nella ex caserma della Guardia di Finanza, poi trasferita
nella scuola di Antignana, ove comandava il feroce voltagabbana Antonio
Paizan (Toni). Qui si concreta il supplizio di Norma: nel pomeriggio, fissata
nuda a un tavolo, è violentata da 17 aguzzini. Un'orgia lurida su
un corpo disfatto da tormenti e umiliazioni. Quindi, a notte, i partigiani
le pugnalano le mammelle e le conficcano a spregio un legno in vagina,
gettandola agonizzante nella foiba di Villa Surani con le mani legate da
filo di ferro.
Giuseppe Cossetto in quei giorni a Trieste, informato
dell'arresto, si precipita a Santa Domenica, dove i partigiani lo rassicurano
sulla liberazione della figlia. A sera però cade nell'agguato, assieme
a Mario Bellini, suo parente che non voleva lasciarlo solo nella penosa
contingenza. Da notare che il Bellini era un giovane tenente, invalido
di guerra, sposato da un anno, in attesa di un figlio.
Scatta la trappola: una mitragliata e il Bellini
muore all'istante, mentre Giuseppe Cossetto resta ferito, tosto freddato
dalla coltellata di un assassino, che egli stesso aveva salvato qualche
mese prima, portandolo di notte con la propria automobile all'ospedale
di Pola. Vengono entrambi gettati nella foiba di Castellier di Visinada.
I tedeschi intanto rioccupano la zona. Informati
da Licia, arrestano alcuni guerriglieri, dai quali emerge la verità
su Norma, il padre e Bellini.
Mario Harzarich, Comandante i vigili del fuoco di
Pola, recupera il 10 dicembre 1943 la spoglia di Norma, qualche giorno
dopo quelle di Giuseppe Cossetto e di Mario Bellini.
Scrive Padre Flaminio Rocchi: "La salma di
Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di S.Domenica.
Dei suoi 17 torturatori, 6 furono arrestati e obbligati a passare l'ultima
notte della loro vita nella cappella mortuaria per vegliare la salma. Veglia
funebre di terrore, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della
decomposizione di quel corpo, che essi avevano seviziato 67 giorni prima,
nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli con la loro vittima, con
il peso enorme dei loro rimorsi, 3 impazzirono e all'alba caddero con gli
altri. Ai funerali di Norma partecipò una folla immensa. Era considerata
una vera martire".
Liberata dai tedeschi, Licia fugge frattanto a Trieste,
di notte a piedi, per la via dei campi. A S.Domenica resta solo la madre,
lì sono sepolti i suoi cari, nonostante subisca ogni giorno la sguaiata
arroganza dei nuovi padroni nelle divise del marito (bardate ora con la
stella rossa), a bordo della Balilla 4 marce, predata alla famiglia.
"La portammo poi a Trieste, a Ghemme, infine
a Ginevra, non potendola lasciare sola, tanto era assente. L'unico sprazzo
di gioia, quando imponemmo a mia figlia il nome di Norma. Io mi ero sposata
- continua Licia - nel '44 con Guido Tarantola da Novara, pilota della
RSI, sequestrato a Ghemme dai partigiani e liberato dalla "Muti".
Povera mamma, si spegnerà poi a Ginevra nel 1960, ufficialmente
per infarto, in realtà per dolore implacato. L'8 maggio 1949 l'Università
di Padova concesse la laurea honoris causa, su istanza del suo ultimo maestro,
il professor Concetto Marchesi, a cui volli chiarire che mio padre era
fascista e Norma sua figlia. Marchesi rispose che non importava: era una
ragazza meritevole, morta così male per la libertà del'Istria".
Peccato (commentiamo noi) che questo dato - la libertà
istriana - non sia stato focalizzato sul diploma di laurea, apparendovi
unicamente - caduta per la difesa della libertà - dizione ambigua
dopo il '45 di sventure.
Sono passati 55 anni e fa terrore il nome di Norma
Cossetto. Non una via dedicata. Sui testi scolastici ancora ignorata. Nessun
atto di giustizia seppure simbolica: i crimini contro l'umanità
non hanno archiviazione. "Ho fatto denuncia contro quei partigiani
presso i Carabinieri di Ghemme - continua Licia - onde fosse inoltrata
al Giudice Pititto a Roma, ma poi sappiamo come tutto andò a finire".
Fortunatamente la Cassazione (22 aprile 1998) ha
confermato la giustezza di celebrare quei processi in Italia, essendo l'Istria
allora sotto sovranità italiana.
STORIA DEL XX SECOLO N. 43 - Dicembre 1998
(Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
NORMA COSSETTO
L. Rache
Di recente, interpretando il "pensiero’’ dei comunisti - più
o meno mascherati da democratici - la compagna Nilde Iotti ribadiva che
il PCI ‘ha sempre combattuto in difesa dela classe operaia, della democrazia
e della libertà’’. Anche Tito, l’infoibatore, diceva le stesse cose
mentre le sue orde slavo-comuniste compivano i noti orrendi massacri in
Istria. In quel genocidio persero la vita, dopo atroci sofferenze, oltre
quindicimila nostri fratelli.
Tra le migliaia di connazionali uccisi, fucilati, impiccati, infoibati,
annegati, vogliamo ricordare una delle martiri di quella nera stagione
di 56 anni fa.
Da diciassette giorni il Savoia fuggiasco (con la sua degna cortigianeria)
era traghettato nell’ospitale campo nemico quando - a circa 1800 km di
distanza in linea d’aria, i suoi nuovi alleati slavo-comunisti, dilagando
da oriente, tingevano di sangue italiano la Venezia Giulia, l’Istria e
la Dalmazia. Il 26 settembre 1943, infatti, viene prelevata dalla sua abitazione
in Santa Domenica di Visinada, da una banda di assassini, la ventitreenne
maestra e studentessa universitaria Norma Cossetto.
Dopo l’arresto, la giovane è portata ad Antignana. Pochi giorni
dopo, rinchiusa nella scuola di questa località, rimane alla mercé
di diciassette aguzzini. (Aguzzini è un eufemismo perché,
forse, non è stato ancora coniato un termine adatto).
"... nella notte dal 4 al 5 ottobre 1943, rinchiusa dai partigiani
di Tito nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata a un
tavolo con legature alle mani e ai piedi e violentata per tutta la notte
da 17 partigiani. Venne poi gettata nella foiba con un pezzo di legno conficcato
nei genitali.’’(1)
Anche il padre di Norma, Giuseppe e il genero Mario Bellini, informati
dell’arresto della giovane, con il solito banditesco agguato vengono catturati.
Le braccia legate con del filo di ferro, furono entrambi uccisi e gettati
nella foiba di Treghelizza a Castellier di Visinada. I loro corpi saranno
recuperati il 4 novembre successivo. Nei giorni 11 e 12 dicembre ’43 furono
estratte, dalla foiba di Surani, ventisei salme di cui venti identificate.
Tra queste, tre donne che presentavano tutte segni di violenza. Una di
esse era quella di Norma Cossetto.
Dal Verbale del Comandante dei VV.FF. di Pola Mario Harzarich:
"Sceso nella voragine, dopo molte fatiche e grande pericolo
per il continuo franare di terra e massi delle pareti, fui scosso, alla
luce violenta della mia lampada, da una visione irreale. Stesa per terra
con la testa appoggiata su un masso, con le braccia stese lungo i fianchi,
quasi in riposo, nuda, giaceva una giovane donna. Era Norma Cossetto ed
il suo corpo non presentava, a prima vista, segni di sevizie. Sembrava
dormire e neppure lontanamente si poteva immaginare fosse morta da diverse
settimane. La prima esplorazione effettuata nella foiba di Surani era stata
compiuta esattamente il giorno 9 dicembre 1943. La mattina del 10 dicembre
venne iniziato il lavoro di recupero delle salme. La signorina Cossetto
venne estratta dalla foiba per quarta; e, dopo 7 ore e 30 minuti di permanenza
internamente alla foiba, vennero, dopo tremendi sforzi e mille pericoli,
estratte 12 salme. Tutte avevano le mani legate con del filo di ferro,
molte erano legate a coppie; la sola Cossetto non aveva le mani legate.
Quando io recuperai la salma, essa non era per niente in putrefazione,
essa era intatta e sembrava che dormisse, tant’è vero che, come
io rimasi impressionato nell’averla vista il giorno prima, altrettanto
e molto più rimasero impressionati i due vigili che nel salvataggio
mi aiutarono sul fondo della foiba. E sul principio non vollero neppure
toccarla, perché sembrava che realmente essa dormisse. Posso ancora
affermare che nel recuperare la salma della Cossetto non vennero neppure
adoperate le maschere, perché, come detto sopra, non era per niente
in putrefazione.(2)
Scrive Padre F. Rocchi: "La salma di Norma fu composta nella
piccola cappella mortuaria del cimitero di Santa Domenica. Dei suoi 17
torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l’ultima notte
della loro vita nella cappella mortuaria per vegliare la salma.
Veglia funebre di terrore, alla luce tremolante di due ceri, nel
fetore acre della decomposizione di quel corpo, che essi avevano seviziato
67 giorni prima, nell’attesa angosciosa della morte certa. Soli con la
loro vittima, col peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba
caddero cogli altri’’.(3)
Nel secondo semestre del 1944, con l’istituzione del Corpo Ausiliario
delle CC.NN. di Squadre d’Azione, a Trieste, unitamente alla 41ª Brigata
Nera "Tullio Cividino’’, si costituì - unica in Italia - una
Brigata Nera femminile che prese il nome di Norma Cossetto.
Nel 1949, l’Università di Padova - nella quale Norma era iscritta
- la proclamava Dottore in Lettere - Honoris Causa - motivandone la decisione
in base al L.L. 7 settembre 1944 n. 236, ossia per onorarne la memoria
poiché caduta il 5 ottobre 1943 per la difesa della libertà.
Motivazione sibillina, che può trarre in inganno perché
Norma può essere confusa con i partigiani morti durante la guerra
civile. Altre Cattedre, però, avrebbero dovuto riconoscerne il martirio
e beatificare Norma Cossetto, quale simbolo dell’Olocausto Giuliano-Dalmata,
che non è certo da meno di quelli di Dachau e Auschwitz o quelli
di Dresda, Frascati, Treviso, Hiroshima e Nagasaki.
Questo "Paese’’ erede dell’infame 8 settembre ’43, imbelle e rinunciatario,
obbediente agli dèi falsi e bugiardi, patrocinatori della globalizzazione,
del meticciato, del mercato comune della droga, criminalità e prostituzione,
succube di altrui decisioni, si attivizza per portare nell’Europa dei Cesari,
di Leonardo, di Michelangelo, dei ‘ragazzi del 99’, i non pentiti discendenti
degli infoibatori, sorta di "etnie’’ dedite alle stragi da oltre sei
secoli, sino al recente Kossovo.
Come negli anni Cinquanta ha supinamente accettato di entrare nella
Nato, senza chiedere alcuna contropartita (Venezia Giulia, Istria, Zara,
la parità di condizioni in riferimento agli armamenti, Briga e Tenda,
ecc.) adesso - con la medesima sindrome di soggezione politica e libidine
di servilismo - continua imperterrito la crociata pro Slovenia e Croazia,
senza nulla pretendere circa le foibe, l’esodo, le espropriazioni e i beni
abbandonati dai profughi, in barba all’articolo 52 della Costituzione che
sancisce: "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino’.
Note:
(1) Da "L’esodo dei Giuliani Fiumani e Dalmati’’
(2) Dal Periodico "Unione degli Istriani’’
(3) Dal Periodico "L’ardito’’
NUOVO FRONTE N. 195 Ottobre 1999. (Indirizzo e telefono:
vedi PERIODICI)